domenica 22 marzo 2009

La legge di Wilcoyote 11 - Il libero mercato

Uno dei grandi equivoci su cui si basa lo sconforto e la confusione delle persone è che il libero mercato e il capitalismo siano la stessa cosa. Così o si accetta il comunismo, cercando di convincersi che il suo fallimento sia dovuto solo ad una cattiva applicazione pratica della teoria marxista oppure si sposa il gigantismo e il cinismo spietato dell'accumulo di denaro. Tertium non datur.

Non è così.

Le grandi ideologie economiche del XIX e XX secolo, l'economia di mercato e l'economia socialista, si assomigliano molto più di quanto i loro fautori siano disposti ad ammettere.

La prima sostiene che il mercato sia in grado di regolarsi da sé, stabilendo il prezzo ottimale di ogni prodotto o servizio in base alla domanda ed all'offerta che c'è del medesimo.

La seconda prevede che le necessità del popolo vengano decise in anticipo da assemblee collettive sempre più ristrette. L'apparato burocratico che richiede la seconda soluzione e l'impossibilità di apportare correzioni efficaci e rapide ha portato al fallimento dell'economia socialista, che in genere porta ad un impoverimento collettivo. In effetti finiva per ridursi di fatto ad una economia di mercato in cui solo pochi eletti decidevano per tutti.

La prima, poiché non prende in considerazione necessità che non generino profitto, viene di solito appesantita da correttivi burocratici che la rendono simile alla seconda.

In realtà l'economia di mercato non è in grado di regolarsi da sola, con buona pace dei vari Say, Friedman ed altri economisti che hanno teorizzato le leggi del mercato.

Laddove si è lasciato che il mercato regolasse se stesso i risultati hanno portato sempre ad un oligopolio, se non un monopolio, che poi richiede penosi tentativi a livello giuridico e legislativo per essere almeno in parte corretto.

In America, da sempre laboratorio di ogni forma di liberismo economico, già da molti decenni si è creata una istituzione, l'antitrust, che da noi fino a poco tempo fa era sconosciuta, a dimostrazione che se si intende il libero mercato come un terreno di scontro, finisce sempre con un trust, un vincitore o un gruppo di vincitori, che fa strage dei concorrenti.

In America lo chiamano il gioco del gorilla, quando una azienda fa di tutto, spesso indebitandosi fino al collo, per eliminare la concorrenza e restare la sola sul mercato.

Apparentemente la clientela sembra avvantaggiarsene perché i prezzi crollano, ma successivamente l'intera società si impoverisce.

Negli Stati Uniti nel 1978, prima che il presidente Carter firmasse il Liberalization Act, esistevano 36 compagnie aeree che si spartivano il mercato e prosperavano in un regime controllato. Dieci anni più tardi le compagnie erano diventate quasi trecento in una situazione generale parecchio confusa. Pochi anni dopo erano rimaste solo quattro o cinque maxi compagnie tutte in cattive acque.

Il concetto di antitrust è di per sè ridicolo. Dapprima, teorizzando la concorrenza ad ogni costo, si lascia che le aziende si autodistruggano lasciando sopravvivere solo i giganti. A questo punto un organismo esterno, l'antitrust, improvvisamente si sveglia e interviene, da una parte impedendo alle aziende di continuare ad ingrandirsi finendo di distruggere i concorrenti e dall'altra vietando loro di accordarsi. In pratica da una parte impedisce la concorrenza e dall'altra la obbliga, il tutto senza regole certe, ma basandosi caso per caso su concetti fumosi.

Bella roba! Basta solo l'esistenza dell'antitrust a chiarire meglio di ogni altra cosa il fallimento del capitalismo.

Varie forme di governo nella storia dell'umanità tendono a portare un gruppo ristretto di persone ad un potere enorme nei confronti della maggioranza. Superate le monarchie e le dittature, anche capitalismo e comunismo hanno portato ad una distribuzione della ricchezza e del potere fortemente squilibrata. Eppure la storia insegna che le società che hanno prosperato nelle età dell'oro dell'umanità avevano tutte una forte classe media, che si spartiva le risorse in maniera quasi paritaria, senza sopraffazione, ma anche senza rinunciare alla libera iniziativa ed all'imprenditoria.

Il libero mercato va favorito, ma anche protetto.

La grande industria, la grande distribuzione, l'agricoltura latifondista, sempre osannata da economisti e sindacalisti, che sia generata da una lotta capitalista o da uno stato socialista, non fa differenza, porta un impoverimento e non un arricchimento. Cento anni fa esistevano in Italia oltre 8000 tipi di frutta, oggi sono meno di 3000 e ha tutto lo stesso sapore. Si fa un gran parlare di consumo equo e solidale per quel che riguarda il terzo mondo, ammettendo di fatto che le multinazionali causano la morte dell'economia locale. Quelle stesse forze politiche, con il solito strabismo, esaltano e ricercano invece il gigantismo delle aziende nazionali accusando la piccola imprenditoria di meschinità, di mancanza di coraggio, di capacità e, secondo equazioni scarsamente comprensibili, di essere la causa del disastro economico.

Il fatto è che finanzieri e sindacalisti pescano dallo stesso serbatoio il loro potere e la loro ragione di esistere, la vera colpa del piccolo produttore, o commerciante che sia, è di dare poco da rodere a finanzieri ed arruffapopoli.

I sindacati e le borse valori nascono in contemporanea alla grande industria e sanno benissimo di essere indispensabili le une agli altri e quindi, anche se apparentemente sembrano in conflitto, si sostengono a vicenda, con buona pace della lotta di classe e delle altre stupidaggini.

Oggi, in Italia e nel mondo, c'è bisogno sempre più di ritornare al predominio della classe intermedia, quella che realizza e distribuisce la vera ricchezza materiale delle nazioni, e non quella aleatoria della finanza.

Bisogna quindi legiferare in funzione di favorire una maggiore distribuzione dell'iniziativa privata, frenando il gigantismo, anziché favorirlo.

Chi apre una bottega si espone ad ogni genere di rischio e forse sono più i suoi nemici legali che quelli illegali. Le normative e le scadenze sono così complesse che deve per forza affidarsi a degli specialisti. Gli adeguamenti sono spesso identici per il gelataio o il meccanico, che per la grande industria alimentare o metallurgica.

Un'azienda con mille dipendenti non ha grossi problemi ad individuare un responsabile delle norme antinfortunistiche, per una azienda con due dipendenti è un costo pesante. Per una grande industria l'omologazione di un prodotto a norme CE è un normale investimento, mentre per una piccola officina è un costo intollerabile.

L'accesso al credito, soprattutto quello agevolato, è un'autostrada per le grandi aziende, mentre è una pesante via crucis, che spesso porta alla morte, per il piccolo imprenditore.

Se qualcuno proponesse di sgravare dai carichi previdenziali assistenziali e magari anche fiscali i lavoratori delle aziende con meno di tre dipendenti, milioni di lavoratori in nero emergerebbero e si creerebbero immediatamente milioni di altri posti di lavoro. Nonostante la creazione di posti di lavoro sia spesso sbandierata come una priorità da tutte le forze politiche, una simile proposte causerebbe levate di scudi compatte sia da parte dei sindacati che da parte dei grandi industriali, dimostrando così, se mai ce ne fosse bisogno, che stanno dalla stessa parte.

Pensate quanto sarebbe più semplice la vita del piccolo imprenditore se potesse semplicemente pagare i propri dipendenti, come avviene in America, e questi provvedessero in proprio al pagamento degli oneri sociali, quali che siano. Ma anche in questo caso ci sarebbe un muro di opposizioni ancora più ampio, pretestuosamente a difesa degli interessi dei dipendenti, in realtà a difesa del sistema parassitario e per molti buoni motivi, dal suo punto di vista.

Eppure è proprio la piccola impresa il vero motore dell'economia delle nazioni, la migliore garanzia per una buona, seppur non perfetta, distribuzione del reddito. Lo è sempre stato, fin dalla notte dei tempi e lo sarà di nuovo quando questo sistema marcio, fatto di ricchezze inesistenti, inevitabilmente crollerà.

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