sabato 21 marzo 2009

La legge di Wilcoyote 1 - La mistica del lavoro

La mistica del lavoro.

L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Questa frasetta idiota, su cui nei decenni si è ironizzato in molti modi, è l'art. 1 della Costituzione italiana.

Nasce da un compromesso tra la componente comunista della costituente, che avrebbe voluto la definizione "l'Italia è una repubblica democratica dei lavoratori" e la componente non comunista che ci vedeva la tipica definizione delle nazioni d'oltre cortina.

In realtà nella sua apparente stupidità contiene un concetto largamente condiviso da ogni forza politica di ogni colore e forse addirittura da ogni essere umano: la sacralità del lavoro e tutto ciò che ne consegue.

La cultura dotta e quella popolare la celebrano da sempre in ogni modo.

Espressioni come: il lavoro nobilita, guadagnarsi il pane, chi non lavora non mangia (o non fa l'amore, secondo Celentano), ora et labora, fino al tragicamente noto "arbeit macht frei" che campeggiava nei campi di sterminio nazisti, manifestano un concetto inconsciamente e generalmente accettato.

Perché dobbiamo lavorare? Per mangiare? Questo è sicuramente vero per le civiltà contadine dove se non si semina e non si munge non si produce cibo, non lo è per le moderne civiltà occidentali, dove la tecnologia consente ad una frazione minima della popolazione di produrre cibo in abbondanza per tutti e addirittura in largo eccesso, tanto che una considerevole parte della produzione viene buttata o convertita. La comunità europea stanzia fondi per NON raccogliere certi prodotti dell'agricoltura. Ed alcuni astuti latifondisti campano di quelli.

Il fatto che siano necessari altri servizi per una vita confortevole nasconde la realtà.

La produzione industriale, sempre più automatizzata, non ha bisogno di molto personale e gran parte dei servizi pubblici, quelli realmente utili, potrebbe essere svolta da un numero infinitamente inferiore di persone.

Insomma nel mondo moderno non c'è lavoro per tutti, e questa dovrebbe essere una gran bella notizia.

Non siamo più costretti a spezzarci la schiena per sopravvivere, ci siamo liberati della schiavitù della dipendenza dagli eventi meteorologici, possiamo avere tutto quello che ci serve ed occuparci delle cose che ci piacciono e cercare di migliorare il mondo.

Invece non sembra essere una buona notizia.

Non si può infrangere il tabù della necessità del lavoro, la nostra civiltà se ne nutre pur se, paradossalmente, lo smentisce sempre di più. Non c'è politico di ogni colore e di ogni nazione che non si spertichi a baccagliare sulla "salvaguardia del posto di lavoro", sulla necessità del " rilancio dell'economia" per "incrementare lo sviluppo" e di "aumentare la competitività" per garantire "la piena occupazione".

Tutti dobbiamo essere "occupati". Le lotte sindacali sempre più vertono sulla garanzia dell'occupazione, proprio quando le aziende, per "rilanciare l'economia" e quindi "aumentare la competitività", riducono il personale.

Gli inutili dipendenti devono essere ricollocati, questa è la cosa più importante, e fare qualunque cosa purché abbiano qualcosa da fare.

Questo non solo perché attraverso il lavoro ottengono i mezzi per partecipare al consumo di quanto viene prodotto, ma soprattutto perché l'occupazione, per balzana ed inutile che sia, garantisce loro un minimo di dignità sociale.

La ricerca del lavoro da parte di chi non ce l'ha, o peggio ancora, l'ha perso e sempre più angosciosa e sempre più frenetica man mano che i lavori veramente disponibili si fanno sempre più rari. I governi barano in tutti i modi per dimostrare che l'occupazione cresce o almeno, non diminuisce, le opposizioni contestano i dati, ma

tutti concordano sulla necessità di aumentare i posti di lavoro. Non importa per fare cosa. Così la gente lotta per la propria schiavitù ed ha paura di perderla.

Nel film "Queimada" Gillo Pontecorvo fa fare a Marlon Brando un azzardato confronto tra il matrimonio e la schiavitù per convincere i governatori dell'isola ad abolirla.

Tolti gli aspetti sentimentali che non ci interessano, dice Brando, molto meglio una prostituta che una moglie, per lo stesso motivo meglio un operaio che uno schiavo.

Recenti studi, che valgono quel che valgono, hanno dimostrato che i proprietari delle piantagioni americane spendevano più per gli schiavi, prima della guerra di secessione, di quanto avrebbero speso dopo per pagare dei braccianti.

La sinistra ha qualche difficoltà concettuale ad adeguarsi alla situazione.

Avendo diviso il mondo in lavoratori, ovviamente dipendenti, che sono necessari, e padroni sfruttatori che non sono necessari, non sa come comportarsi con la figura del lavoratore inutile e indesiderato.

I sindacati la ignorano semplicemente e, d'altro canto, non potrebbero fare diversamente. I politici no, perché questa massa crescente sono pur sempre votanti, anche se, essendo esclusi dall'importantissimo processo

produttivo, si sentono esclusi anche dalla società e tendono a disinteressarsi dei suoi riti, come il voto.

La destra monetarista invece manifesta fiducia estrema nel libero mercato che salva tutto.

La concorrenza, la legge della domanda e dell'offerta sposteranno masse di qua e di là, ma alla fine tutto si riequiliberà. Quindi quando i parassitari dipendenti saranno pagati in base a quello che producono e non sulla base di quando hanno estorto i sindacati, la società garantirà benessere per tutti in maniera adeguata

all'impegno di ciascuno. Quindi chi non lavora e non ha benessere, in sostanza ha quello che si merita.

Anche questa illusione sta per cadere, la gente che si sbatte disperatamente eppure non riesce a provvedere a se stessa è sempre più numerosa e il libero mercato in realtà non è così libero, anzi sta diventando sempre più ristretto.

Sta cominciando a mancare anche la speranza, l'aspettativa di migliorare in futuro o di garantire ai propri figli una condizione sociale migliore.

Nel mondo passato la speranza di affrancarsi dal lavoro dipendente e migliorare il proprio status era quella di mettersi in proprio. Oggi una quantità sempre crescente di persone, stufa di spedire il proprio curriculum inutilmente in giro, ha tentato anche questa strada, mettendo in campo le poche risorse di cui disponeva, generalmente perdendole,ed ha saltato il fosso passando dalla parte dei padroni sfruttatori che si arricchiscono e non pagano le tasse, secondo una certa ottica. Oggi, se escludiamo la massa enorme di dipendenti pubblici, i lavoratori autonomi sono quasi più numerosi dei dipendenti e, nella maggior parte dei casi, non hanno benessere, ne garanzie sindacali e vengono stritolati dalla burocrazia.

Non possono nemmeno lamentarsi perché queste sarebbero le leggi del libero mercato, al quale anche la sinistra moderata, abbandonata l'improbabile dittatura del proletariato, sembra essersi convertita.

Un esempio lampante è stata nel 2006 la protesta dei tassisti contro il decreto, di un governo di sinistra, che voleva liberalizzare la concessione di licenze.

Senza entrare nel merito del decreto e dare valutazioni, ciò che colpisce è stato il suo effetto sociale.

I tassisti hanno scoperto di non essere dei lavoratori, ma dei padroni arroganti, anzi una potente lobby che impone il proprio interesse alla nazione, strangolandola.

Contro di loro hanno gettato sassi soprattutto chi in passato ha sempre difeso il diritto allo sciopero e si sono scagliate contro le associazioni di consumatori, perché i cittadini sono stati danneggiati dal loro comportamento.

In realtà, almeno nelle grandi città, pochi fanno il tassista per vocazione e la maggioranza lo fa per necessità, non avendo trovato o avendo perso un altro posto di lavoro.

Si è indebitata per acquistare a caro prezzo la licenza di taxi che il decreto avrebbe ridotto a valore zero e si sarebbe adeguata a fare qualche anno di vita dura e modesti guadagni, aspettando di riprendersi l'investimento rivendendo la licenza.

Eppure hanno trovato scarsa comprensione.

Di per sé il concetto è giusto: in un libero mercato, chiunque abbia voglia di fare il tassista dovrebbe poter scrivere "taxi" sulla propria macchina e praticare i prezzi che vuole, il fatto è che in realtà questo genere di libertà porta inevitabilmente a immense concentrazioni che poi impediscono a chiunque altro di competere.

In poche parole il libero mercato, se non viene protetto, non resta libero a lungo.

Ad un momentaneo improvviso aumento dell'occupazione segue inevitabilmente un crollo della medesima e questo perché nessun libero mercato può garantire lavori non realmente necessari e questo contrasta con la necessità di far lavorare tutti.

Oggi qualunque provvedimento comporti, anche solo potenzialmente, l'aumento di un unico posto di lavoro, non importa a quale costo, viene sbandierato dai governanti con grande enfasi, un piccolo passo avanti verso il grande sogno: la piena occupazione. Una volta il paradiso era il posto dove nessuno doveva lavorare oggi sembra il contrario.

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