giovedì 15 gennaio 2009

LA VITA DOPO IL COLLASSO DELL’ECONOMIA: come possedere meno ci renderà più felici

DI SARA VAN GELDER E DOUG PIBEL
Yes! magazine

“Il raggiungimento della felicità”. E’ una cosa talmente americana da essere stata inserita nella nostra dichiarazione d’Indipendenza dove è elencata insieme alla vita e alla libertà, come un diritto inalienabile.

Ma quanto successo abbiamo avuto in questa ricerca? E adesso che il sistema finanziario globale sta implodendo, quanto ci sembra possibile essere felici nei prossimi mesi e negli anni a venire?

L’amore non si può comperare

Sin dall’inizio degli anni Settanta, gli Americani hanno cominciato a comperare a più non posso, sia che potessero permetterselo o no. Ci avevano promesso che una nuova macchina, una borsa più alla moda, o un televisore con lo schermo piatto ci avrebbero reso più felici, e noi ci siamo comportati di conseguenza. Ci avevano detto che un’economia in costante crescita ci avrebbe reso tutti ricchi. Ma, mentre il nostro prodotto interno lordo è cresciuto più o meno stabilmente dal 1970 in poi sino all’attuale crisi finanziaria, la maggior parte di noi non ha visto elevarsi né il proprio livello di vita né il proprio benessere. Gli stipendi sono rimasti stagnanti mentre i costi delle cose di prima necessità – come la casa, le cure mediche, il cibo e l’energia – sono rapidamente saliti.

Quelli che rientravano nel 20 per cento dei più ricchi, hanno visto aumentare le loro rendite dell’80 per cento nel corso degli ultimi 25 anni, mentre il 40 per cento della fascia più bassa ha realmente perso terreno.

Sono poche le famiglie che oggi riescono a vivere con un solo stipendio, ed un problema di salute o la perdita del posto di lavoro possono ridurre in povertà una famiglia di ceto medio o ridurla senza casa.

E tuttavia continuiamo a comperare quei prodotti che si suppone debbano renderci felici portando molti di noi ad indebitarsi sempre di più. Le famiglie hanno in media circa 5.100 dollari di debito con la carta di credito, con tassi di interessi tali che spesso rendono quasi impossibile ripianare il conto. Negli ultimi anni il valore delle case ha raggiunto il record più basso mentre la gente si era indebitata chiedendo prestiti in base alla loro proprietà. Nel 2004, l’anno più recente del quale sono disponibili i dati della Federal Reserve, il debito ipotecario superava i 290000 dollari per ciascuna famiglia, quasi il triplo di 15 anni prima.

Tutti questi debiti rendono la vita più precaria. Ciò ci ha anche resi più schiavi di lunghe ore di lavoro che – sempre che lo troviamo il lavoro – si aggiungono a lunghi spostamenti che ci mangiano tutto il tempo di cui altrimenti potremmo disporre per cose che secondo le ricerche, ci renderebbero davvero felici.

E’ facile cadere nel tranello di credere che avere più cose ci dia la felicità, perché nelle pubblicità c’è sempre un qualche elemento di verità. Abbiamo bisogno di una certa quantità di cibo per vivere, dopo tutto. Proteggersi è giusto. Abbiamo bisogno di abiti, di accessori – può essere piacevole avere un pochino di più dello stretto necessario. Ed avere molte cose è sempre stato un modo per dimostrare che si è raggiunto il successo e che si ha diritto al rispetto. Ma subito dopo la bella novità di un nuovo corredo o di un nuovo abito di lusso, ci ritroviamo con un buco nel portafoglio e una sensazione di vuoto che – ce lo dicono i pubblicitari – potremo colmare soltanto andando a comperare altre cose nuove e più belle.

Seguire questi consigli può mantenere pulsante l’economia aziendale, ma ci ha reso felici?

Moti diagrammi indicano che la risposta è: non proprio. Gli Indicatori del progresso genuino (Genuine Progress Indicators) dimostrano che lo standard generale del benessere, la nostra salute, la qualità della vita, la sicurezza economica e ambientale, presi tutti insieme sono rimasti piatti, nonostante abbiamo lavorato più duramente. Uno studio ventennale effettuato dall’ OECD afferma che gli Stati Uniti hanno il più alto tasso di sperequazione e di povertà rispetto a tutti gli altri paesi sviluppati, e il divario fra i salari è cresciuto stabilmente fin dal 2000. Un sondaggio Gallup di recente ha scoperto che solo la metà degli Americani vive libera da preoccupazioni di carattere economico o legate alla salute, rispetto all’83 per cento della popolazione che vive in Danimarca. Quando l’Organizzazione mondiale della Sanità e la Scuola di medicina di Harvard hanno effettuato uno studio sull’indice della depressione in 14 Paesi, gli Stati Uniti sono risultati i primi della lista.

Quanti Pianeti ci vogliono?

Ma non sono soltanto gli Ameicani che stanno subendo il contraccolpo di un sistema economico che mette il denaro e la crescita davanti al vero benessere. La popolazione mondiale sta perdendo la possibilità di accedere alle risorse naturali e alla sovranità economica.

Le multinazionali, nel cercare di guadagnare stimolando e poi soddisfacendo il nostro appetito per le cose, hanno calpestato il modo di sostentarsi e di vivere di agricoltori Messicani, abitanti delle foreste pluviali, minatori africani e lavoratori thailandesi. Quando la vendita delle terre o il sovvenzionamento dell’importazione di prodotti agricoli rende impossibile continuare il tradizionale stile di vita, molte di queste persone vanno in città affollate dove non hanno altra scelta se non quella di lavorare per un bassissimo salario o tentare una difficile migrazione verso un paese che consenta paghe più alte.

Avere grosse macchine, splendide televisioni e vestiti alla moda non ci ha mai reso felici. Questo ci ha solo portato ad indebitarci – ed ha aumentato la nostra dipendenza da lunghe ore di lavoro.

Un campione della globalizzazione come Thomas Friedman ci dice che in poche generazioni questi lavoratori raggiungerano uno stile di vita simile al nostro, qui negli Usa. Ma l’analisi dell’impronta ecologica dimostra che ci vorrebbero più di sei pianeti come la Terra per dare a ciascun abitante del mondo l’uguale livello di consumismo che “appaga” gli Americani. E’ chiaro che abbiamo un solo pianeta, e che si sta surriscaldando.

La conquista della felicità

E’ questo ciò che Thomas Jefferson aveva in mente quando sostituì “la conquista della felicità” nella frase contenuta nel rapporto del Primo Congresso Continentale, “vita, liberà e proprietà”?

L’ideale di Jefferson era un’economia basata su piccole fattorie che producevano gran parte di quanto serviva loro. La loro felicità non era qualcosa che affidavano a una corporation per ricavarne una rendita, ma era piuttosto qualcosa che avevano creato loro stessi attraverso il loro lavoro e le relazioni umane che ci sono all’interno di una comunità. L’economia di quel tempo era in parte basata su una società che possedeva schiavi e terreni che spesso aveva preso agli indigeni, ma l’ideale di Jefferson ebbe un forte ascendente sul Paese nascente. Libertà, indipendenza ed autosufficienza erano tutti valori popolari.

Gli Usa hanno fatto un lungo cammino allontanandosi dagli ideali di Jefferson. Oggi produciamo poco di ciò che usiamo. Lavoriamo per guadagnare denaro, e comperiamo cibo, abiti ed altri generi di necessità in grossi magazzini ed acquistiamo servizi per i nostri figli e per gli anziani da una serie di imprese.

Poiché non abbiamo più tempo, capacità, famiglie numerose e non possiamo tornare alla terra, cosa che solo qualche decennio fa era normalissima, siamo diventati completamente dollaro-dipendenti. E questa dipendenza ci pone alla mercè di coloro che controllano l’economia e il giro del denaro. E coloro che hanno accumulato denaro hanno un’esorbitante influenza sul nostro governo. E questo è l’esatto opposto di ciò che sognava Jefferson. Ed è anche un netto distacco dal modo in cui gli esseri umani hanno vissuto per la maggior parte della storia.

La vita dopo il Crack

Può darsi che la crisi che ci è venuta addosso non sia un male dopotutto. Può darsi che che questo periodo di distruzione creativa ci offra delle opportunità per un nuovo inizio, l’opportunità di costruire una società che ponga al primo posto la gente comune e faccia in modo di creare le condizioni per la sua felicità.

Dopo lo shock di quest’onda di crisi, forse ci guarderemo attorno come i personaggi dei film di Fellini che escono all’alba dopo una notte di eccessi. Spegneremo la televisione, e anche internet, e noteremo i brillanti colori dell’alba e parleremo ai nostri vicini che non abbiamo mai trovato il tempo di incontrare.

Potremo passere meno tempo al lavoro per il contrarsi dell’economia e perché molte imprese avranno chiuso.

Ma forse impareremo a condividere il lavoro e a pretendere del tempo per curare quegli aspetti della nostra vita che secondo le ricerche contribuiscono veramente al conseguimento di una vera felicità –tempo per stare in famiglia, con gli amici, per interessarci dei problemi civici, per esprimere la nostra creatività. Sarebbe la prima volta. Durante la grande Depressione, ad esempio, la Kellogg ridusse i turni dei propri impiegati da otto a sei ore per ampliare la possibilità di lavorare ad un maggior numero di persone. La produttività salì talmente che la società avrebbe potuto pagare gli stessi salari per turni ancora più corti. Frattanto, le organizzazioni civiche, le scuole per gli adulti e la vita delle famiglie fiorì a Kalamazoo.

Può darsi che troveremo il modo di commerciare con i nostri amici e con i nostri vicini - qualche melone invernale, qualche torta fatta in casa per coccolare i bambini o qualche riparazione alle case. Può darsi che riconquisteremo le abilità che avevamo e che insegneremo gli uni agli altri come coltivare, come aggiustare le cose da soli, cucire e lavorare a maglia insieme ai nostri figli e nipoti.

In un certo senso, nell’esuberanza della frizzante economia degli anni 80, 90 e 2000, abbiamo perso la traccia di qualcosa. Il denaro esiste per servirci come un mezzo non perché tutto gli ruoti attorno. Le nostre vite e la nostra società non devono ruotare secondo le regole dell’alta finanza dettate dai suoi rappresentanti che stanno a Whashington DC. Noi, il popolo, possiamo rifiutare l’ortodossia economica che ci ha dato così poco e possiamo ricostruire la nostra economia su basi differenti.

Ricostruire

Che tipo di società vogliamo ricostruire? Che cosa potrà espandere le nostre vite, la libertà e portare alla felicità senza che diminuiscano le opportunità per gli altri di avere, ora e in futuro, le stesse cose?

Ecco qui alcune cose che dovremo fare:

1) Le politiche economiche per il futuro devono assicurare che tutti siano inclusi nel programma, e che potremo far risollevare coloro che hanno toccato il fondo. Quando permettiamo che l’ineguaglianza dilaghi nella nostra società , noi inneschiamo i crimini, la violenza e l’odio che danneggiano la possibilità che ciascuno trovi la felicità. Non possiamo più permettere che si emettano assegni a nove cifre per Ceo e che i redditi degli investimenti raddoppino. Parafrasando Gandhi, possediamo a sufficienza per soddisfare i bisogni, ma non l’avidità di ognuno.

2) Il gioco di sparare sull’ambiente è finito. La futura economia deve funzionare nell’ambito della produzione attuale. Non possiamo più permetterci di vivere delle ricchezze del passato, come se milioni di anni di depositi fossili si potessero ricostituire oggi per non diminuire le riserve di petrolio. Dobbiamo invece rivolgerci all’energia solare, a quella del vento, e alle altre energie rinnovabili, e coltivare cibo e fibre ricostituendo il terreno e non gettandogli prodotti derivati dal petrolio. Non possiamo più usare la nostra atmosfera, gli oceani, le fonti d’acqua ed il suolo come discariche. Nessuna quantità di eventi tipo "Run for the Cure" può risolvere il problema del cancro se continuiamo ad avvelenare il nostro cibo, l’acqua e l’aria. Ed il clima sta raggiungendo un pericoloso punto di rottura.

3) Non possiamo più permettere che l’economia e il denaro aumentino come un cancro nella nostra società sino ad inquinarne tutti gli aspetti della vita. Bisogna che l’economia sia al servizio della gente, delle comunità e della salute del nostro sistema ecologico, e non il contrario. Invece di basarci su aziende globali libere e fuori da ogni giurisidzione, potremmo prendere in considerazione le produzioni regionali e locali per soddisfare i nostri bisogni e offrire impieghi sostenibili, incluse imprese di portata media o cooperative e via dicendo.

4) Se faremo così, comprenderemo più chiaramente la vera fonte della felicità. Le statistiche ci dicono che la base per un buon modo di vivere e per la felicità risiede in amabili rapporti interpersonali, nel mutuo rispetto, in un lavoro ricco di significato, e nella gratitudine, e quando scopriremo la forza che c’è in queste qualità, il luccichio delle pubblicità ed il materialismo non ci imbroglieranno più. Il consumismo troverà posto fra le cose del passato.

Non appena cominciamo a re-imparare le nostre capacità e a ricostruire le relazioni perderemo la voglia di ricercare il denaro e le cose e cominceremo a provare la gioia che ci aspettavamo; una felicità che non dipende dalla fluttazione del mercato o dal numero di cose che si possiedono.

Anche se a breve termine può essere dolorosa possiamo uscire da questa crisi più sani e più ricchi, di un genere di ricchezza che davvero conta: comunità fortemente unite, buoni rapporti con i propri cari, un ecosistema sano, e la capacità di vivere e godere la vita.


Titolo originale: "Life After the Economic Collapse: How Having Less Will Make Us Happier", da http://www.yesmagazine.org/
Traduzione italiana a cura di Comedonchisciotte

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